domenica 29 giugno 2014

Mondialolimpiadi

Padre Farrel - Ho tanta gioia dentro al mio cuor - colori a cera su a4 - 2013 coll. privata

Cari amici lettori di muco filiforme in questa estate di sport, di pomeriggi mondiali, di umidità al 98% e canicola infernale, in questa estate di atletica, motori, tennis e cavalli mi sono ritrovato a pensare a quando, giovane virgulto, anche io appartenevo alla schiera degli italici atleti.
Come qualsiasi integrato bambino anni '80 ho spaziato fra gli sport più vari: Pallone (da non confondere con il calcio), bicicletta (da non confondere con il ciclismo), palestra (ad oggi non ho ancora capito cosa facessi), arti marziali varie tipo judo e semicontact e tiro con l'arco.
Fra tutti questi, quello che più di tutti mi ha segnato facendo scaturire in me il germe della follia, fu proprio il tiro con l'arco ed è giunto oggi il momento di condividere questa esperienza.
Tutto iniziò quando a scuola durante una sonnecchiosa ora di educazione fisica, il professore chiese chi volesse provare ad intraprendere la sopraccitata attività sportiva. Non so come mai, ma vincendo una riluttante diffidenza verso qualsivoglia attività extra-curriculare (come vengono oggi definite) mi proposi. Inizialmente devo dire mi sembrò abbastanza divertente, mia nonna mi fece una faretra in jeans che mi rese l'arciere più casual del mondo, non avevo pressioni ed eccetto alcune ustioni da corda sul braccio sinistro, tutto era tendenzialmente piacevole. Dopo pochi incontri, però, le regole dello sport e l'intrinseco senso dell'arco e delle frecce, fecero scaturire in me un'ansia da prestazione non indifferente. Intanto è uno sport che prevede una tranquillità, una precisione ed una mano ferma che in fase adolescenziale, per vari motivi, sono pura utopia. Inoltre si dovevano scagliare tre frecce in tre minuti, un tempo di per sé ragionevole ma che a me sembrava brevissimo, col risultato che i miei tiri avvenivano in maniera ravvicinatissima con sommo maleficio per la precisione.
Invaso da una sorta di delirio zen, ero convinto di non dover contrastare l'errore ma di assecondarlo. L'opposto assoluto al concetto di precisione sarebbe prima o poi coinciso con la cecchinità. Se errare è umano e perseverare è diabolico, sarei diventato una sorta di arciere del diavolo.
Assecondai il mio delirio fino a rimuovere il mirino per aderire alla categoria "arco nudo" dove concorrevano gli arcieri de lux, quelli bravi tipo robin hood per capirci.
Cercavo di scoprire un metodo o forse una metodologia. Tutti i discorsi tipo svuotare la mente, fissare il bersaglio, sentire l'arco come un prolungamento del proprio corpo, vedere il volo della freccia prima di averla scagliata, su di me non avevano alcun effetto. La mia mente era e continuava ad essere un guazzabuglio di pensieri: non ero Karate Kid ed il professore non era un vecchio cinese di un metro e venti che acchiappava mosche con le bacchette. Lui veniva dal villaggio Santa Rosalia. In effetti non mi risultava che via Ernesto Basile fosse famosa per i suoi arcieri.
Tutto l'esperienza assunse una dimensione paradossale, la ritualità arcieristica veniva sorpassata da una irrequietezza tipica dell'età, iniziai a notare che intorno a me c'era una perenne ricerca di materiali perfetti per migliorare la performance, mentre io avevo il portafrecce in jeans... erano di mia zia Annamaria, ma non le venivano più.
Capii definitivamente che non era il mio sport quando un giorno esercitandomi in campagna, colpii una A112 posteggiata creando un graziosissimo foro vicino al tappo della benzina. Per fortuna non lanciavo frecce infuocate (era comunque nei miei progetti). In un'altra occasione, durante un allenamento nella palestra della scuola, bucai per tre volte il muro dietro il bersaglio e la porta del bagno delle ragazze. Ogni volta mi dicevo “La prossima andrà meglio”.
Ovviamente i miei amici non mi stimavano abbastanza come arciere da mettersi una mela in testa al mio cospetto,  sicuramente non si sarebbero convinti nemmeno se il frutto fosse stato un melone. Mi fu diagnosticato uno strabismo isterico dell'occhio dominante. 
Oggi credo che ogni freccia lanciata andava dove fosse giusto che andasse, senza alcuno scopo o forse no. Non scoccavo dardi né per sopravvivenza né per motivi di guerre rinascimentali e se sei una persona che non possiede nemmeno un minimo di disciplina interiore, non puoi cimentarti in attività di precisione. Oppure puoi farlo ma il risultato sarà proporzionale al tuo livello di autocontrollo.
Il divertimento era lanciare la freccia, non fare centro; vedere il volo del dardo, non dove si conficcava.
Tutto quello che aveva a che fare col quantificare il risultato del tiro non mi interessava. In fondo era tiro con l'arco, non freccia al bersaglio.


                                                                                                                                                  Guglielmo O'tellurico

Nessun commento:

Posta un commento